IL CREATIVO E L’ALCHIMIA AL CONTRARIO
IL CREATIVO,
LA SICUMERA e L’ALCHIMIA AL CONTRARIO.
“Creativo” è un aggettivo, non un sostantivo, scrive Sandor Von Mallasz a conclusione di un lungo ed energico post su Facebook, in cui se la prende con la sicumera implicita in alcuni commenti di creativi (sostantivo) pubblicitari (aggettivo).
Non entro nel merito, se non per rilevare che la sicumera è una tipica, diciamo così, malattia da professionisti (deriva dal sovrastimare le proprie competenze). Che è endemica nelle professioni che implicano una dose di narcisismo, e sono molte. Che nessuno (sottoscritta compresa) può dirsene immune così, a priori. E infine che, lo riscrivo anche qui, la sicumera è una brutta bestia perché impedisce di riconoscere il nuovo ed espone agli sghignazzi dei posteri.
Torno al punto. Anche se fare pubblicità è el me mestée da alcuni decenni (beh, in realtà uno dei miei mestieri) mi sono sempre trovata a disagio con la definizione di “creativa”, che poi, declinata al femminile, suona anche peggio.
Sono in ottima compagnia: una memorabile invettiva di Pasquale Barbella condanna l’abuso del sostantivo etichettandolo, nell’ordine, come razzista, irresponsabile, goliardico, ambivalente, selettivo e, soprattutto, inesatto.
In effetti, circoscritto a un singolo settore (la pubblicità) e limitrofi (ora si parla più spesso di “creativi” anche per grafica, fotografia, moda, design, web…) il termine può apparire insieme frivolo e fanfarone, esagerato e, per contrappasso, segnato da un’ineliminabile traccia di sarcastico disprezzo.
Dopotutto, suvvia, sappiamo bene che nessuno fra gli arruolati nel gruppone dei “creativi” sta disponendosi a salvare l’umanità grazie a un’intuizione folgorante, a una scoperta geniale o a un’invenzione capace di migliorare il mondo intero.
E nessuno o quasi si dispone a vincere un premio Nobel o un Pulitzer, un Oscar o una medaglia Fields. Ho scritto “o quasi” perché, per esempio, il regista Oliver Stone, che ha esordito con la pubblicità, ce l’ha fatta.
Ma vengono dalla pubblicità anche Andy Warhol e Francis Scott Fitzgerald, Salman Rushdie, Don DeLillo, Joseph Heller… (leggetevi le loro storie). A tutti, probabilmente, in qualche momento è stata appiccicata l’imbarazzante etichetta di “creativo”, tranne che a Fitzgerald: il Webster fa risalire al 1962 la trasformazione alchemica da aggettivo a sostantivo.
Ma mi viene da pensare che questi, e tutti gli altri che ce l’hanno fatta, ci siano riusciti anche nella misura in cui si sono emancipati dal considerarsi “creativi” per ruolo e, liberandosi dell’ingombrante sostantivo, hanno cominciato a interrogarsi sul come produrre qualcosa che avesse valore e senso, e che per questo potesse legittimamente guadagnarsi, avendone la necessaria qualità, l’aggettivo “creativo”.
Dicevo: la trasformazione alchemica. Ma pensateci bene: si tratta di un’alchimia al contrario, che trasforma l’oro della creatività nel piombo dello status. Che baratta una vibrazione di inquietudine e di infinito, e di tensione verso ciò che è nuovo, con un’etichetta, omologante come tutte le etichette.
Dubito che si possa rimediare: perfino il dizionario Treccani ormai registra, insieme all’aggettivo, il sostantivo.
Ma continuo a pensare che sarebbe bello ribaltare lo schema. E che all’essere un creativo (sostantivo) che fa pubblicità o moda, video o design o web, sia preferibile l’essere un pubblicitario, un designer, un fotografo e così via che sa essere, almeno ogni tanto, creativo (aggettivo).
Annamaria Testa